Adolescenti. Assenti e taciturni? Troppa realtà virtuale

Patologie del tratto cervicale, difficoltà di concentrazione e, soprattutto, ritiro sociale. Questo è il rischio maggiore per i ragazzi che usano smartphone e supporti digitali. Perché più è ‘portabile’ lo strumento, più la compulsività trova terreno facile –

Intervista a Federico Tonioni, responsabile del primo ambulatorio italiano che cura la dipendenza da internet, attivo al Policlinico Gemelli di Roma

Da quando esiste questo servizio?

Lo sportello – il primo inserito in un circuito sanitario nazionale pubblico in Italia (dopo qualche mese ha aperto un ambulatorio simile alle Molinette di Torino, poi sono sorte una serie di Onlus e di associazioni private) – esiste dal 2009 e abbiamo visto oltre 1000 prime visite. Il nostro è, poi, l’unico day hospital a Roma di psichiatria accreditato per le tossicodipendenze, cioè prima ancora di internet e del gioco d’azzardo: da sempre il Gemelli ha un day hospital che disintossica da droghe e poliabusi a livello ospedaliero.

Seguite anche utenti adulti?

Abbiamo seguito anche un 20% di pazienti adulti e lì – forse – i connotati della dipendenza erano più chiari, tenendo però presente che questa è sempre un tentativo di ‘autoterapia’ rispetto a un’angoscia più profonda, che rappresenta la punta di un iceberg ed è sempre una scelta obbligata: se c’è uno che non ha possibilità di scelta è il dipendente, da qualsiasi cosa esso lo sia. Gli utenti che consideriamo dipendenti patologici lo sono perché i processi mentali presenti nel giocatore d’azzardo sono quelli che lei vede nel cocainomane: anche a livello biologico, la cocaina – per fare l’effetto che fa – incrementa la produzione e la circolazione di dopamina che è lo stesso neurotrasmettitore che aumenta quando un giocatore vede la slot machine, o il bulimico la Nutella. In tutti gli stati di eccitazione legati alla compulsività, sia quelli mediati da una sostanza, sia quelli mediati da un’esperienza, si riscontra nell’organismo un incremento di quell’ormone. Se si è felici di una vincita al Totocalcio, si ha più dopamina di un altro momento in cui si è meno felici.

I risultati di questo primi anni di lavoro?

Intanto non si può parlare negli adolescenti di dipendenza patologica in generale, né tantomeno di dipendenza da internet. I ragazzi non sono dipendenti patologici di niente, perché la mente adolescente è in continua trasformazione. Tornando alla sua domanda, i risultati sono concreti perchè tanti ragazzi stanno meglio: quello che abbiamo imparato dai nostri pazienti adolescenti è che in loro ci sono solo ‘fasi’ di abuso, che un ragazzino può giocare con un gaming per sei mesi dalla mattina alla sera e non essere ancora un dipendente, esattamente come un ragazzino che si ubriaca il sabato e la domenica: presenta sì un disagio, ma non è un alcolista. Secondo me non è un fatto di reiterazione di un comportamento, bisogna ricordarsi che cos’è l’adolescenza: è come avere a che fare con la creta fusa, un qualcosa in continuo divenire, in continua trasformazione. Si deve immaginare la mente adolescente come un’orchestra, ci sono tanti strumenti e la sfida è quella di emettere una musica con tanti strumenti possibili ma intonata e durante questa ricerca ci sono delle stonature o si sentono delle musiche terribili, però la tensione, il progetto di ogni adolescente è l’armonia.

Come riportate ad un uso ‘normale’ di Internet i ragazzi?

Nei ragazzi gli abusi su internet hanno molto a che fare con un nuovo modo di pensare e di comunicare, che però può avere degli effetti collaterali patologici a cui non eravamo abituati. Quando viene un adolescente da noi il focus non è mai sul numero di ore di connessione ma sull’intensità del ritiro sociale, perché il problema negli adolescenti riguarda le emozioni e la socialità. Le faccio un esempio: se un agente della polizia postale sta 20 ore al computer a caccia di pedofili e pensa alla partita di calcetto che andrà a giocare come stacca dal lavoro, non ha nessun tipo di disturbo, fa solo il suo lavoro. Mentre immagini invece un giovane artigiano che non può giocare al gaming dal quale magari è ossessionato, per cui lavora con le mani 12 ore al giorno ma mentre lavora pensa in continuazione al gioco di ruolo che sta facendo e uscendo dal lavoro si precipita a casa e passa su internet tutto il tempo possibile: quello è un dipendente. Il ritiro sociale è il vero problema: noi seguiamo i ragazzini che smettono di andare a scuola, non perché vogliono solo giocare ma perché non reggono lo sguardo dal vivo.

A livello emozionale cosa succede nei ragazzi, in quel caso?

Sia i gaming on line che i social network sono due modi di comunicare, quello che noi abbiamo visto è che – innanzitutto – il gaming è aggressivo: parliamo di giochi ‘spara tutto’ e abbiamo imparato che l’attenzione è sulla grande importanza dell’emozione dell’aggressività in questi ragazzi, che è poi strettamente connessa ad essere o diventare vittime di cyber bullismo. I ragazzi che vengono qui hanno un problema con l’aggressività, ma l’aggressività non è intesa come una cosa negativa come la distruttività. L’aggressività serve per costruire, per vivere, per scoprire lo spazio fin da bambini: un bambino piccolo non scopre lo spazio se glielo spieghi, lo scopre quando urta contro il mobile. Il movimento è connesso proprio alla scoperta dello spazio, a conquistare e difendere un posto nel mondo, anche visivamente. Io sono piccolino, se vado a prendere il caffè al bar a Roma la mattina, certi giorni mi devo sbracciare, sennò lo prendo dopo mezz’ora: quando mi sbraccio conquisto più spazio, sono più visibile. Il cameriere infatti quando mi vede non è che dice “bravo”, dice “sì, ora ti porto il caffè”: quell’aggressività li, i nostri pazienti non ce l’hanno, e allora sa che succede? Che se la tengono dentro, e quando un ragazzino si tiene dentro l’aggressività ha due strade: o se la rivolge contro e diventa depressione, o la somatizza e troverà tutte le scuse (febbre, mal di pancia, etc.) per evitare occasioni sociali (la gita, la festa, la recita) oppure questa rabbia viene proiettata fuori e diventa paranoia, cioè “c’è un persecutore fuori che ce l’ha con me”.

Quindi un’ emozione o implosiva, o estroflessa o somatizzata?

Esatto, e in questo contesto l’aggressività ha un ruolo fondamentale, ora il gaming perchè è fatto di giochi sparatutto? E perché, quando viene impedito il gioco sparatutto da un genitore che – incautamente e in buona fede – leva la consolle al figlio, il figlio picchia il genitore o fa cose esagerate? Perché quel tipo di game è un detonatore dell’aggressività. Secondo lei ci vorrebbe un limite a giochi di questo genere? Ci vorrebbe una presenza degli adulti con i figli fin da piccoli, dovrebbero interfacciarsi tra ogni screen digitale e i bambini: si sa che per dimenticarsi di un bambino – e lo dico come padre – basta dargli un telefonino o un Nintendo… Il problema è di quanto ‘pensiamo’ i figli. Molte mamme vengono qui e dicono “mio figlio quando sta al computer non si vede e non si sente”: vuol dire che ‘non si pensa’, e i figli hanno bisogno di essere pensati quando sono bimbi, anziché essere controllati poi, quando sono adolescenti. Dopo, non si può più controllare un figlio: era molto più facile accorgersi – ai nostri tempi – se un figlio usciva dalla finestra, che di capire – oggi – quello che sta facendo al computer.

Un graffito terribile dipinto su un vagone della metro di Roma “Giochiamo a vedere che fine facciamo?” fa pensare come i ragazzi esprimano ‘creativamente’, oltre alla solitudine, anche la tendenza a correre rischi. Che ne pensa?

Terribile, è vero, perché in quella frase non c’è costruttività, non c’è un progetto… Dare fiducia ad un adolescente significa dargli la possibilità di scoprire da solo il suo senso del limite, controllarlo significa che l’adolescente alza il tiro. E’ difficile da fare: essere genitori presenti significa dare ai figli dei punti di riferimento. Dei limiti sì, però non per avere un atto di ubbidienza che accumula rabbia, ma per fare delle trattative, perché nel compromesso si conoscono i figli. Il poliabuso giovanile è un’altra forma di difesa – rispetto al ritiro sociale – per lo stesso problema, che è un vulnus nell’emotività di questi ragazzi. I nativi digitali non sono solo quelli che stanno su internet: anche quelli che vanno ai rave sono nati nell’era digitale per cui hanno avuto tutti lo stesso stress – che è uno stress emotivo – al quale hanno reagito in maniera diversa, paradossalmente in maniera più evolutiva. Come l’uso di Mdma (Ecstasy, ndr), per esempio, che crea degli ‘stati di innamoramento programmati’. Secondo lei è utile informarli sui danni che può provocare il superamento di limiti? Non si può essere assenti, ma dopo averli informati bisogna fidarsi di loro. Come? Stando fermi: i figli se hanno bisogno di noi vengono loro, sennò fanno esperienza. Quello che sanno è che questo è l’unico momento della vita in cui possono fare esperienza. L’adolescente sfida la morte, della morte abbiamo paura io e lei. I ragazzi sanno tutto: io, tutte le volte che riesco a fidarmi di mia figlia, cresco come genitore.

Seguite una metodologia analoga a quella adottata per altre forme di dipendenza e co-dipendenza, per esempio quella dei cosiddetti ‘12 passi’?

No, ma lavoriamo con le tossicodipendenze a stretto contatto con i Gruppi Anonimi, che hanno tutta la mia stima. Per gli adulti si, ma per gli adolescenti non ha senso perché – sottolineo – riguardo a Internet non si può parlare di dipendenza patologica. – See more at: http://rainews.cms.rai.it/preview/mariav.dematteis/dl/rainews/articoli/ContentItem-9ee4dc7d-ad79-46c1-8956-24f749e9cdbc.html

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